venerdì 24 luglio 2009

THANK YOU

“Twenty years from now you will be more disappointed by the things you didn’t do than by the ones you did. So throw off the bowlines, sail away from the safe harbor. Catch the trade winds in your sails. Explore. Dream. Discover.”
Mark Twain

Grazie Australia.

Grazie per avermi fatto capire cosa significano rispetto e multiculturalità;

Grazie perché ora so distinguere ciò che è inutile da ciò che è futile, ciò che è indispensabile da ciò che è superfluo;

Grazie per avermi insegnato a guardare in alto mentre cammino;

Grazie per avermi fatto emozionare con i tuoi cieli infiniti, le tue nuvole dalle mutevoli mille forme e colori, i tuoi tramonti che nessuna cartolina o fotografia potrà mai ritrarre con la stessa intensità con cui sono impressi nei miei occhi;

Grazie perché ora so che la lingua non è un ostacolo all’amore;

Grazie perché ogni mattina in questi ultimi quindici mesi mi sono svegliata felice senza nessuna ragione apparente se non per il fatto stesso di essere al mondo;

Grazie perché mai prima d’ora mi ero resa conto di quanto fossi fortunata;

Grazie perché ancora una volta ho avuto la conferma che si può cambiare la propria vita in qualunque momento e la si può rendere straordinaria;

Grazie per gli ostacoli che mi hai fatto incontrare lungo il mio viaggio, per avermi messo alla prova e avermi dato sicurezza in me stessa;

Grazie per aver stravolto la mia concezione spazio-temporale;

Grazie per avermi costretto ad adattarmi a situazioni difficili e talvolta paradossali;

Grazie per non avermi mai fatto sentire sola anche quando lo sono stata;

Grazie per avermi mostrato cosa vuol dire vivere in una società civile e per avermi reso consapevole di quanto, a malincuore, noi se siamo ormai distanti;

Grazie perché ora so quali sono le piccole cose che possono rendere meravigliosa ogni singola giornata e farò di tutto per regalarle a chiunque le vorrà condividere;

Grazie perché stare lontana da casa mi ha permesso di distinguere con chiarezza i veri amici da quelli falsi;

Grazie perché lungo il cammino ho incontrato persone a cui sono bastati un mio abbraccio o un mio sorriso per sentirsi meglio;

Grazie perché ora so che non potrei mai vivere una vita lontano dalla mia famiglia;
Grazie per avermi sempre fatta sentire a casa;

Grazie perché non mi sveglierò mai più di malumore;

Grazie perché mentre scrivo tutto ciò la mia vista si annebbia, lo schermo diventa una serie di righe nere su uno sfondo bianco e le lacrime scendono lungo le mie guance, le lacrime di chi ha raggiunto la consapevolezza che la vita è meravigliosa, che la “mia” vita è meravigliosa.

giovedì 9 luglio 2009

BROOME TIME

Dopo settimane di caldo afoso e cieli blu immacolati questa mattina Broome si è svegliata sotto una leggera coltre di nuvole e un piacevole fresco venticello. Seduta sulla mia sedia da campeggio, di fronte alla tenda che da un mese a sta parte è la mia casa, con una tazza di caffè caldo tra le mani, mi rendo conto di provare una sensazione meravigliosa e che non avevo mai provato prima di arrivare in Australia : non fare assolutamente nulla e non sentire la benché minima esigenza di dover fare qualcosa. Potrei stare per ore seduta sulla sedia semplicemente guardandomi intorno, pensando, o talvolta addirittura senza pensare assolutamente a nulla, semplicemente lasciando il tempo scivolare. E’ una sensazione bellissima che ti regala una pace e una serenità indescrivibili. Sentirsi finalmente liberi dal vincolo di dover impiegare il tempo in qualche modo per non sentirsi inutili, annoiati o per dare un senso alle nostre giornate. Nella mia “vita precedente” ricordo che ogni giorno libero dal lavoro doveva essere occupato da qualcos’altro. Mi svegliavo la mattina pensando a come avrei potuto impegnare la giornata e se arrivavo a fine giornata senza aver concluso qualcosa mi sembrava di aver sprecato il mio tempo. Per non parlare poi di stare seduta da sola per ore sulla panchina di un parco o al tavolino di un bar: la noia si impadroniva di me dopo pochi minuti. C’era sempre una sorta di ansia o di disagio che mi portava a dover trovare qualcosa da fare pur di non restare sola con me stessa.
Ora invece le mie giornate stanno trascorrendo esattamente al contrario. Mi sveglio al mattino, alzo la cerniera della tenda e i miei occhi vengono investiti dalla luce del sole ormai già alto e pronto a regalarmi un’altra torrida giornata invernale. Dopo una lunga e abbondante colazione e quattro chiacchiere con i vicini di tenda, la mia intera giornata è totalmente priva di qualunque programma o impegno, ma la cosa non mi preoccupa affatto. Talvolta faccio una passeggiata fino in città per comprare qualcosa per il pranzo o per fare un saluto a mia sorella che lavora al bar. A volte vado in spiaggia, dove potrei stare per ore sdraiata ad abbronzarmi, ascoltare musica, leggere un libro o a contemplare la bellezza dell’ oceano Indiano. Quando l’afa non dà tregua passo qualche ora in biblioteca su internet o a leggere qualche rivista o quotidiano. Quando alle cinque il sole cala e alle sei è già buio non resta molto da fare se non cucinare qualcosa, chiacchierare un po’ e rivolgersi le stesse domande ogni sera relative a come si è trascorsa la giornata. A priori si conoscono le risposte poiché sono le stesse tutti i giorni, ma è comunque piacevole chiedere e sentirsi chiedere “How was your day?”. Magicamente e inspiegabilmente arriva la stanchezza e la voglia di andare a letto. La giornata è stata assolutamente all’insegna del “far nulla”, ma è trascorsa senza che per un solo minuto abbia provato la sensazione di annoiarmi o di sprecare il mio tempo. Vivere pienamente le proprie giornate non vuol dire necessariamente fare qualcosa, produrre, essere impegnati, significa fare qualunque cosa o assolutamente nulla provando una sensazione di pace, di equilibrio, di armonia con se stessi e con tutto ciò che ci circonda. Non credo di riuscire con le parole a rendere appieno questa sensazione, va provata per essere compresa e sono io la prima ad ammettere che fino ad un anno fa non avrei avuto la più pallida idea di cosa volesse dire.
Ed ecco perciò che posso aggiungere un’altra voce all’elenco dei regali che mi ha fatto l’Australia. Indubbiamente l’aver trascorso un mese a Broome ha dato un grosso contributo. Lo stile di vita di questa cittadina è emblematico del “relax” che caratterizza l’intero Western Australia, basti pensare che ironicamente si dice che W.A. (la sigla del Western Australia) voglia dire in realtà Wait Awhile! Ed ancora, per rendere l’idea, qui si parla di “Broome Time” ad indicare che il concetto di “tempo” a Broome è diverso che da qualunque altra parte. A Broome è “tempo” di rilassarsi, di godersi la vita, di non stressarsi, di non pensare troppo, di divertirsi, di dimenticare qualunque pensiero o preoccupazione. Se vi doveste trovare di fronte ad un episodio strano agli occhi di noi europei e chiedeste una spiegazione al riguardo ad un abitante di Broome, questo quasi sicuramente non vi saprebbe dare una spiegazione logica ma semplicemente vi direbbe: “Man, it’s Broome time!!!” Per farvi un esempio, una settimana fa c’era in centro un grosso cartellone che annunciava “Venerdì , fuochi artificiali” senza però specificarne l’orario. Chiedendo un po’ in giro c’era chi mi diceva che erano alle 7, chi alle 8 e chi alle 9. Per non parlare poi dell’ufficio informazioni che non ne aveva la più pallida idea. Il concetto quindi era “I fuochi sono Venerdì sera a qualunque ora, tu rimani in zona tra le 7 e le 9 e prima o poi li vedrai”: questo è Broome time. Per non parlare poi degli esercizi commerciali. Broome nei mesi di Luglio e Agosto è inondata dai turisti, ma ciononostante la maggior parte dei negozi e dei bar chiudono alle 5 in settimana e non aprono proprio la Domenica. Da noi sarebbe impensabile una cosa del genere, gli stessi gestori non rinuncerebbero mai a incrementare le proprie entrate tenendo chiuso alla Domenica. Qui invece la gente preferisce di gran lunga godersi la domenica con la propria famiglia o con gli amici piuttosto che guadagnare di più. La Lonley Planet ironicamente suggerisce di andare in terapia se non ci si riesce a rilassare a Broome!
E’ passato ormai più di un mese da quando sono tornata a Broome per la seconda volta. Dopo soli 4 giorni dal mio arrivo ho trovato un lavoro per un’impresa di pulizie e ho lavorato per loro una decina di giorni, dopodiché ho avuto alcuni problemi con il capo e me ne sono andata. A questo punto avrei potuto cercare qualcos’altro sapendo che sarei rimaste a Broome per altre tre settimane, ma confesso di non averci nemmeno provato e di aver lasciato vincere la pigrizia. Ho trascorso perciò le ultime tre settimane nell’ozio più totale. Ora purtroppo siamo giunti al termine anche di questo capitolo. Domani sera ho un volo che mi aspetta per riportarmi dove tutto ha avuto inizio, per chiudere il cerchio aperto ormai più di un anno fa a Sydney. Mi fermerò per una decina di giorni a Sydney per rivedere gli amici e sbrigare alcune formalità, dopodiché mi aspetta il grande passo: lasciare definitivamente l’Australia.
Innanzitutto so già che mi spiacerà lasciare Broome. In primis sarà dura lasciare mia sorella, con cui ho vissuto 24 ore su 24 per gli ultimi due mesi e mezzo, e riprendere a viaggiare da sola. Oltre a lei sarà strano dover salutare persone che non posso sicuramente definire “amici”, ma che hanno fatto parte della grande famiglia del caravan park che quindi in qualche modo mi ci sono affezionata: Barron, un ragazzo koreano dolcissimo e con un grande cuore, Adam, un australiano che pur essendo spesso stonato si è rivelato essere molto più colto della media dei ragazzi australiani e con una faccia che fa ridere solo a guardarlo, Tom, un estroverso parrucchiere di Londra dolce e assolutamente fuori di testa allo stesso tempo, Gigi, un ragazzo di Trento che io e mia sorella abbiamo sempre preso in giro per l’accento e tanti altri ancora. Il mio addio definitivo all’Australia sarà però il 20 di Luglio. Non voglio ancora pensare a quel momento, ho ancora 10 giorni davanti da godermi nella mia amata Sydney e non voglio sprecare nemmeno un secondo pensando alla partenza. Proverò ad attutire un po’ l’impatto del rientro (o forse rendendolo ancora più traumatico) fermandomi altri 10 giorni a Bali per poi mettere definitivamente piede sul suolo italiano il 2 di Agosto e cominciare così un nuovo “viaggio”.

giovedì 28 maggio 2009

RIEPILOGANDO

Avevo chiuso il mio ultimo post dicendo di non volervi anticipare i miei progetti di viaggio per farvi stare un po’ sulle spine, ma è passato più di un mese e mezzo da quando ve l’ho detto e credo che più che curiosi sarete ormai rassegnati all’idea di non sapere che fine ho fatto. E’ impensabile riassumervi in un solo post tutto il mio viaggio, perciò cercherò in qualche modo di sintetizzare tutto quello che è successo da quando sono ritornata a Melbourne per la seconda volta fino al mio arrivo quassù a Darwin, al Top End. Come da programma mia sorella mi ha raggiunta a Melbourne dove siamo state per quattro giorni ospiti di Jo, il suo ex flatmate e da qui abbiamo deciso la prima meta del nostro viaggio: il Red Centre.
“Red Centre” è il nome con cui è conosciuta la zona centrale dell’altrettanto centrale stato del Northern Territory e il nome deriva dal colore rosso della terra di questa immensa distesa desertica. Pur non essendo una fan dei tour organizzati non me la sentivo di viaggiare in macchina o in van con altri backpackers, come avevo fatto da Melbourne ad Adelaide e la ragione è molto semplice. Visitare il Red Centre significa sostanzialmente salire da Adelaide ad Alice Spring e da qui spostarsi ad ovest verso la meta principale: Uluru. Ma per raggiungere la meta finale occorre viaggiare per circa 3000Km o più nel nulla più totale: centinaia di kilometri di deserto, senza nessuna forma di vita umana se non qualche sporadica “road house” o stazioni di servizio. Tutto ciò implica che se non si è più che organizzati in termini di scorte d’acqua, di benzina, di cibo e di tutto ciò che può servire in caso di avaria dell’auto si è praticamente fottuti. Non voglio dire che si rischia la vita su questa strada, sarebbe esagerato, ma se si è fortunati si incrocia un’auto ogni ora e ritrovarsi a mezzogiorno nel deserto, con 35 o 40 gradi, magari senza scorte d’acqua e con l’auto in avaria non è sicuramente uno dei modi migliori per apprezzare il Red Centre. A questo va aggiunto il fatto che molto spesso i backpacker comprano le auto o i van semplicemente cercando quello più economico, senza preoccuparsi troppo delle condizioni del motore. Perciò fatte queste semplici osservazioni, condivise da mia sorella, abbiamo deciso di optare per il tour organizzato. Girando un po’ per agenzie abbiamo finalmente fatto la nostra scelta: 7 giorni e 6 notti di tour all inclusive da Adelaide ad Alice Spring. Nonostante ci sia costato un po’, sono più che soddisfatta della scelta fatta. I posti visitati sono stati a dir poco da togliere il fiato e la guida ha dato il contributo maggiore, dandoci un’infinità di informazioni sulla flora, fauna e geologia della territorio e sulla cultura aborigena, il che ha reso possibile apprezzare al meglio tutto quello abbiamo visto. Ciò che in effetti amo dei tour organizzati è che con una guida si viene a conoscenza del vero significato di quello che si sta vedendo e questo vale soprattutto per alcune regioni dell’Australia, come il Northern Territory e il Western Australia, che sono state il cuore della cultura aborigena per migliaia di anni prima della colonizzazione inglese. Il tour ci ha portati alla cittadina sotterranea di Coober Pedi passando per la catena montuosa delle Flinders Rangers e per William Creek, la città più piccola del South Australia (numero di abitanti: 5). Da Cooper Pedi ci siamo diretti al maestoso Uluru per contemplarne la sua bellezza sia al tramonto che all’alba. Avendo visto un’infinità di volte foto e cartoline dell’ Uluru avevo paura di rimanere delusa o comunque di non essere in grado di provare stupore nel vederlo dal vivo, ma devo dire che è proprio vero quello che ho letto una volta a tal proposito e cioè che si possono vedere migliaia di foto e di filmati dell’ Uluru, ma niente è equiparabile alla sua bellezza quando lo si ha di fronte ai propri occhi. E’ davvero difficile esprimere a parole, ma quello che ho provato quando me lo sono trovato di fronte è stato un senso di devozione e di rispetto come nei confronti di una divinità. Mi sono sentita una creatura piccola e impotente al cospetto di un’entità maggiore. C’era del divino in quella immensa roccia e ne potevo percepire le vibrazioni, quelle stesse vibrazioni che sono l’essenza della sacralità dell’Uluru per gli aborigeni e in qualche modo anche per me. Dopo aver trascorso gli ultimi due giorni facendo trekking a Kata Tjuta e al King Canyon abbiamo concluso i 4000Km di tour arrivando ad Alice Springs.

Trascorsa una giornata in relax per riprenderci dalle fatiche di sette giorni in viaggio e altrettante notti nel sacco a pelo sotto le stelle nelle fredde notti del Gibson Desert, il giorno successivo ci siamo imbarcate su un volo per Perth, la capitale del Wester Australia. La scelta di Perth è stata dettata del fatto che, prima di partire per il Red Centre, avevamo contattato due ragazzi francesi che avevano lavorato in farm con mia sorella e ci eravamo accordate per raggiungerli a Perth e viaggiare con loro in van lungo tutta la west coast. La salite al nord lungo la costa è durata 12 giorni durante i quali abbiamo visitato, con più o meno calma, tutte le attrazioni principali della costa. La bellezza della west coast sta nel fatto che, oltre alle ovviamente rinomate località cosiddette “da non perdere”, ci sono una miriade di lookout lungo la costa la cui bellezza non è menzionata in nessuna guida turistica ma che ti possono lasciare per ore in loro contemplazioni: spiagge bianche e acque cristalline che non hanno nulla da invidiare alle migliori spiagge caraibiche, il tutto amplificato dalla scarsità, o talvolta addirittura dalla totale assenza di qualunque altro essere umano al di fuori di te. Trascorrere 12 giorni in un van 24 ore su 24 insieme a due persone praticamente sconosciute e cercare di essere sempre sulla stessa lunghezza d’onda non è così facile come può sembrare, ma è l’unica scelta possibile quando si vuole viaggiare in economia. Viaggiare con un van significa di base non avere spese per l’alloggio e dividere i costi di cibo e benzina. Ma questo significa a sua volta dover dormire in 4 in un van dalla larghezza di un letto da una pizza e mezza, dover cercare ogni sera un posto in cui campeggiare “illegalmente” sperando di essere multati da un ranger, adeguarsi ad una dieta piuttosto monotona non avendo altro a disposizione che un fornelletto da campeggio, farsi la doccia nei bagni pubblici con l’acqua fredda e non avere chiaramente nessuna sorta di privacy. Fortunatamente l’Australia è stata creata apposta per i backpackers e in qualunque località, anche la più piccola e sperduta, si trovano sempre bagni pubblici perfettamente puliti e aree pic nic dotate di piastre elettriche per il barbeque assolutamente free. La scelta del van, o della macchina, è comunque l’unica possibile se si vuole davvero vedere la west coast. A differenza della east coast, molto più turistica e ben servita, la west è molto più selvaggia e ancora in parte libera da folle di turisti e perciò anche meno organizzata da un punto di vista di trasporti. Potendoci muovere con il nostro mezzo abbiamo raggiunto località altrimenti inaccessibili con un bus o un treno. Da sud a nord abbiamo passeggiato tra le colonne di roccia del Pinnacle Desert, dato da magiare ai delfini a Monky Mia, giocato con le conchiglie di cui è interamente costituita Shell Beach, osservato senza apri bocca la bellezza del panorama che si gode da Eagle Bluff e fatto un salto di qualche milione di anni in mezzo agli stromatoliti, la più antica di qualunque forma vivente tuttora presente sulla terra, le prime creature che sono state in grado di produrre ossigeno e di dare quindi origine a tutte le altre forme viventi più evolute, noi compresi. Poco più a nord ci siamo fermati per un paio di giorni a Coral Bay e a Exmouth, le due località principali del Ningaloo National Park. In Ningaloo è un parco marino, ossia una splendida barriera corallina in cui è possibile fare snorkeling semplicemente affittando maschera e boccaglio e entrando nell’ oceano, senza dover pagare nessuna barca o gita organizzata. Anche in questo caso la presenza di pochi turisti ha fatto sì che la barriera sia assolutamente intatta e incontaminata. Nonostante l’acqua fredda dell’oceano non abbiamo potuto fare a meno di perderci per ore a contemplare la bellezza di quei fondali, abbiamo visto pesci di ogni colore e forma, stelle marine e, meraviglie delle meraviglie, nuotato fianco a fianco con un paio di tartarughe giganti.

Dopo 12 intensi giorni siamo finalmente arrivati a Broome. A questo punto le nostre strade si sono divise: i due ragazzi francesi hanno proseguito verso Darwin, mentre io e mia sorella abbiamo deciso di fermarci poiché lei voleva cercare lavoro in qualche ristorante ed io volevo visitare il Kimberly National Park, impossibile da farsi con un van poiché la strada non è asfaltata e richiede perciò un 4WD. Girando un po’ per agenzie di viaggio mi sono resa conto dei prezzi esorbitanti dei tours nel Kimberly e mi ero ormai rassegnata all’idea di dover rivedere i miei piani, quando, fortuna vuole, nell’ostello in cui alloggiavo, ho conosciuto Max, un ragazzo tedesco che cercava un compagno di viaggio proprio per salire a Darwin attraverso il Kimberly. Dopo soli 3 giorni dal mio arrivo a Broome sono perciò ripartita lasciando mia sorella, che ne frattempo era riuscita a procurarsi un paio di lavoretti in un caffè e in pub. Il viaggio è durato 5 giorni e non trovo altre parole per definirlo se non “absolutely, totaly wild”. Come tutti i tedeschi, anche Max era ben organizzato in termini di equipaggiamento per la macchina e per campeggiare ma, ciononostante i disagi ci sono stati. Innanzitutto non volendo spendere soldi nei campeggi abbiamo sempre dormito in luoghi “illegali” e ciò ha comportato l’assoluta assenza di elettricità e acqua corrente per tutti i 5 giorni. Il Kimberly è considerata la regione più remota e in parte non ancora del tutto esplorata dell’Australia, il che rende la sua scoperta assolutamente entusiasmante, ma allo stesso tempo richiede un buon spirito avventuriero e capacità di adattamento. Avendo viaggiato solo su strade sterrate e non avendo avuto occasioni per fare una doccia vi lascio immagine in che condizioni eravamo alla fine del trip!!! Fortunatamente quasi ogni giorno abbiamo potuto nuotare nei numerosi fiumi che attraversano il parco, dandoci così quantomeno l’illusione di essere puliti. Il Kimberly è una regione immensa nella quale ci si possono spendere settimane avendo sempre qualcosa di diverso da fare e da vedere ogni giorno. Poiché Max non aveva molto tempo a disposizione abbiamo dovuto fare una scernita e optare solo per alcune soste. Abbiamo così deciso di visitare Windjana Gorge dove abbiamo potuto vedere da vicino numerosi coccodrilli arenati lungo le rive del fiume che scorre alla base di un lunghissimo canyon che milioni di anni fa altro non era che il fondale di un oceano. Ci siamo poi diretti verso alcune gole con cascate e piscine naturali dove abbiamo potuto nuotare e rilassarci. Da qui siamo saliti per 300Km al nord per raggiungere Mitchell Fall, un complesso di cascate che durante la stagione delle piogge devono essere assolutamente spettacolari, ma che anche ora, durante la stagione secca, sono assolutamente meritevoli di una visita. Gli ultimi due giorni purtroppo sono stati solo lunghe ore di guida su strade sterrate decisamente non ben tenute e che per tanto, onde evitare di distruggere la macchina, ci hanno costretto a procedere molto lentamente.

Il breve viaggio con Max lungo la Gibb Road si è concluso a Kununurru, una piccola cittadina locata a poche decine di kilometri dal confine con il Northern Territory. Lui voleva infatti fermarsi per qualche giorno in cerca di lavoro, io invece volevo proseguire in direzione di Darwin. Non avendo trovato nessun annuncio di backpackers che cercavano compagni di viaggio per salire al nord, ho dovuto comprare un biglietto del bus e partita alle 10.30 da Kununurru sono arrivata alle 22.30 a Darwin, ora locale (non so se lo sapevate, ma l’Australia è talmente grande che ci sono tre diverse fasce di fuso orario: forte eh!?!?!).
Ed ecco che una volta arrivata a Darwin sono piombata in una sorta di crisi mistica. Mi sono ritrovata per la prima volta ad aver voglia di tornare a casa. Ora, col senno di poi, posso dire che forse non era esattamente voglia di tornare a casa, ma più voglia di un po’ di stabilità. Nei miei progetti iniziali c’era l’idea, una volta arrivata a Darwin di prendere un volo per Cairns e scendere lungo East Coast fino a Sydney. Ma una volta giunta a Darwin mi sono resa conto di essere davvero stanca di viaggiare e di non avere più voglia di proseguire. Allo stesso tempo però l’idea di tornare direttamente a Sydney non mi entusiasmava più di tanto: qua su al Nord il tempo ora è assolutamente favoloso, circa 30 gradi, mentre a Sydney l’inverno è alle porte con i suoi 15 gradi. Quello di cui avevo bisogno perciò era una parvenza di stabilità unita al caldo del nord Australia. Dopo aver valutato mille diverse possibilità e speso ore su internet controllando prezzi di voli e bus ho deciso di tornare a Broome da mia sorella e darmi una settimana di tempo per trovarmi un lavoro. Se in una settimana dovessi trovare qualcosa mi fermerò circa un mesetto, in caso contrario prenderò il primo volo per Sydney e poi per l’Italia. La soluzione mi sembrava la migliore che potessi trovare: stare ancora un po’ con mia sorella in un posto con spiagge e tramonti da sogno.

Prima di tornare a Broome ho deciso comunque di visitare quello per cui tutti vengono a Darwin: il Kakadu National Park. Ero inizialmente un po’ restia all’idea di fare questo tour poiché una persona che aveva visto il Kimberly, come me, mi aveva detto che il Kakadu era più o meno simile, ma ora, a tour concluso, posso dire di essere stata contenta di averlo fatto. E’ vero, in effetti, per alcuni aspetti i due parchi si assomigliano molto ma il Kakadu in questo periodo, ossia appena dopo la fine della stagione delle piogge, è assolutamente da visitare. Tutto il nord Australia durante l’anno vede solo due stagioni: la Wet e la Dry. Durante la Wet (da Ottobre a Aprile) gran parte dei parchi e anche dei centri abitati sono soggetti ad inondazioni e perciò moltissime località sono assolutamente irraggiungibili, durante la Dry (da Maggio a Settembre), di contro, gradatamente tutto si asciuga. Il periodo migliore per visitare il Kakadu è proprio fine Maggio quando ormai tutte le attrazioni sono aperte l pubblico, ma il terreno è ancora pregno d’acqua e perciò la vegetazione è ancora rigogliosa. Sono stati tre bellissimi giorni trascorsi facendo trekking sotto il sole cocente per poi trovare refrigerio nelle acque dei fiumi, magari sotto il getto di una cascata dal salto di 150metri, come alle Jim Jim Fall. La sera abbiamo acceso il fuoco e cucinato barbeque con canguro, coccodrillo e bufalo, abbiamo provato a suonare il Dijiridu (il lungo tubo di legno suonato dagli aborigeni) e dormito sotto le stelle.

E’stata dura condensare in poche righe tutte quello che ho visto e fatto in due mesi di viaggio, ma spero di avervi dato un’idea di quanto meravigliosa sia l’Australia e magari di avervi trasmesso un po’ di curiosità e di voglia di visitare questa stupenda terra.

lunedì 20 aprile 2009

IS EVERYBODY IN? THE TRIP IS ABOUT TO BEGIN

NOOSA

Dopo 40 giorni passati a fare il conto alla rovescia, non vedendo l’ora di finire i tre mesi di lavoro in farm, mi sono ritrovata l’ultimo giorno a non voler andar via. Chiaramente non per il lavoro (di quello ne avevo la nausea più totale), ma per le amicizie che si erano create in ostello. Dopo tre mesi trascorsi nello stesso posto, con le stesse persone a contatto ogni singolo giorno, si finisce per diventare come una grande famiglia e separarsene diventa difficile. Quindi è stato con un pizzico di tristezza che il 27, alle 7 di mattina sono salita su quel bus che mi ha portata lontano da Stenthorpe. Arrivata a Brisbane alle 10 avevo quattro ore buche prima della partenza del mio bus per Noosa. Conoscendo a memoria Brisbane, non avevo nessuna voglia di girare per la città, così mi sono semplicemente diretta verso la piazza principale e mi sono seduta su una panchina per mangiare il mio panino. Mentre me ne stavo così, semplicemente seduta a guardare la gente passare, mi si è avvicinato un tipo apparentemente “non del tutto sano di mente” (capelli lunghi, vestiti sporchi e decisamente lontano da una doccia da parecchi giorni) e mi ha chiesto l’ora. Probabilmente aveva voglia di fare conversazione e così, senza chiedermi se poteva, si è seduto vicino a me e mi ha fatto le solite domande “Come ti chiami? Di dove sei?Ecc.”. Dopodiché mi ha preso il polso per guardare il mio braccialetto e mi ha detto che gli piaceva. A questo punto, senza aggiungere altro ha tirato fuori dalla tasca della camicia un bellissimo fiore giallo di frangipani, me lo ha messo al polso, mi ha chiesto se mi piaceva, si è alzato e se ne è andato. Ancora soprapensiero per quell’incontro assurdo, dopo pochi minuti me ne è capitato un altro ancora più assurdo. Guardando attorno a me la gente passare, mi è caduto l’occhio su un ragazzo che camminava a pochi metri da me ed ho subito realizzato che io quel ragazzo lo conoscevo. Non sapendo come chiamarlo, poiché non ricordavo il suo nome, l’ho additato, sperando che si girasse e guardasse nella mia direzione e quando finalmente si è voltato gli ho domandato “Italiano?”. Lui mi ha chiaramente guardata con due occhi allucinati mentre avanzava verso di me. Una volta arrivato vicino gli ho detto “Tu sei di Domo, facevi il biologico al Rosmini” e lui mi ha risposto “Sai anche quando sono nato?” Ci siamo messi a ridere entrambi frastornati da quell’incontro. Per farla breve mi ricordavo di questo ragazzo perché faceva il Rosmini come me, solamente in un’altra sessione. Non credo ci fossimo mai parlati ai tempi della scuola, ma aveva un viso particolare e quindi, anche se erano dieci anni che non lo vedevo più, ero sicura che fosse lui. Mi elettrizzano sempre questi incontri sul tema “il mondo è piccolo”: un ragazzo di Beura e una ragazza di Crodo che si rivedono dopo 10 anni in piazza a Brisbane, in Australia. Purtroppo abbiamo potuto chiacchierare solo pochi minuti perché il mio bus era in partenza ma ci siamo promessi di vederci per una birra al mio ritorno a Brisbane.
Il viaggio da Brisbane a Noosa doveva durare da programma un paio d’ore ma il traffico del venerdì pomeriggio unito ad alcuni cantieri lungo il percorso, hanno posticipato di un’ora l’arrivo a Noosa. Dopo una notte di sonno profondo mi sono risvegliata al mattino con il rumore della pioggia che picchiettava sul tetto. Demoralizzata per il brutto tempo stavo già pensando a come avrei potuto passare una giornata piovosa in ostello, ma fortunatamente verso le 11 il cielo si è aperto dandomi la possibilità di girovagare per le strade e le spiagge della città. Noosa non è una vera e propria città, è una piccola cittadina che si sviluppa sull’oceano, lungo le rive del fiume che sfocia in esso e sulle colline retrostanti. Il centro è costituito semplicemente da una via principale corollata da boutique, cafè e ristoranti costosi. Pur non essendo mai stata a Cannes, credo che per l’aria sofisticata che si respira Noosa la possa in qualche modo ricordare. Mi ha particolarmente divertito leggere sulla Lonely Planet l’origine del nome Noosa. Quando i conquistatori inglesi sono sbarcati qui, hanno chiesto ad un aborigeno del posto : “Questo posto ha un nome?” e lui nel suo inglese approssimativo ha risposto “No sir”. Gli inglesi, non capendo la pronuncia del nativo hanno pensato che il posto che il posto si chiamasse “Nosir” e da qui “Noosa”.
Il mio soggiorno a Noosa è durato solo tre giorni durante i quali il tempo non è stato troppo clemente: sole cocente intervallato da acquazzoni improvvisi che non mi hanno perciò dato modo di godermi le spiagge e di riprendere un po’ di abbronzatura. La mia scelta di trascorrere tre giorni a Noosa era dettata dal bisogno di assoluto riposo in un posto tranquillo, dopo i tre mesi passati in farm, e dalla curiosità di vedere questa località decantata da molti come un vero e proprio paradiso. Sicuramente il brutto tempo ha dato un buon contributo, ma devo dire di essere rimasta davvero delusa. Regola numero uno del viaggiatore: non avere mai troppe aspettative verso la prossima destinazione, ma lasciarsi sorprendere dall’ignoto e dalla meraviglia dell’inatteso. Regola che ho dimenticato di seguire quando mi sono diretta a Noosa. Così tante persone avevano lodato questa località che le mie aspettative erano decisamente troppo alte. Dopo aver girovagato per le vie del centro, passeggiato una giornata nel parco nazionale facendo trekking lungo un percorso a picco sull’oceano , remato in kayak lungo le rive del fiume mi sono resa conto di non aver provato nessuna emozione forte, di quelle che ti fanno imprimere indelebilmente nel cuore e nella mente una tappa del tuo viaggio. Le spiagge, i faraglioni, l’oceano, erano decisamente degni di essere immortalati in una fotografia, ma non in me. Non so davvero dare a spiegazione razionale a tutto ciò, ma, come ho già detto, credo che la ragione principale siano state proprio le aspettative troppo alte.


MELBOURNE

La prova definitiva che la regola numero uno è sacrosanta verità l’ho avuta proprio con la mia successiva destinazione. Lasciata Noosa e trascorsa la notte a Brisbane mi sono imbarcata il mattino successivo sul volo diretto a Melbourne. La maggior parte delle persone che erano state a Melbourne, mia sorella in primis, mi avevano riportato commenti decisamente poco positivi su questa città: niente di speciale, solo grattacieli, locali notturni, brutte spiagge e in generale troppo europea, niente di australiano a caratterizzarla. Aspettandomi esattamente tutto ciò mi sono invece ritrovata ad amare questa città nel giro di poche ore. L’impatto iniziale è stato un po’ traumatico. Abituata al relax e allo stato costante di torpore che caratterizza la gente del Queensland, mi sono ritrovata di colpo travolta dalla camminata frettolosa dei businnes men e businnes women della CBD di Melbourne. Passeggiando a caso per le vie del centro, senza sapere esattamente dove stessi andando, mi sono concessa un’indigestione di bellezza. I tre mesi passati in farm sono stati un vero suicidio per l’esteta che è in me. Ero costantemente circondata da gente brutta, brutta in tutti i sensi. Quando si parla di Australia si pensa sempre alle spiagge paradisiache e ai corpi marmorei dei surfisti, ma questa è solo una piccola fetta della popolazione australiana e per la maggior parte non si tratta nemmeno di australiani veri, ma del frutto di incroci etnici e di immigrati d’oltremare. I veri australiani sono quelli del country, del bush, dell’outback. Sono gente che vive in villaggi isolati centinaia di kilometri dalle grandi città, le cui principali attività di sostentamento sono per lo più l’allevamento e l’agricoltura. Si credono i cowboys del 2000 e vanno in giro con stivali a punta, cinture da rodeo, gilet di pelle sopra la camicia a scacchi e ovviamente cappello a tese larghe. Le feste del paese sono feste country, con il rodeo, l’esposizione delle vacche, il toro meccanico e ovviamente gli immancabili fiumi di birra. Non hanno nessun concetto di salute e di cura del proprio aspetto, il 90% degli abitanti sono sovrappeso, se non obesi, e incuranti di tutto ciò persistono nella loro dieta a base di sousage rolls, fish and chips e hamburgers. Vi risparmio la descrizione delle donne, anche perché credo si possano definire tutto tranne che donne, corpi sgraziati e privi di qualunque traccia di femminilità al bancone del bar bevendo pinte di birra e imprecando come il peggiore degli scaricatori di porto. Ma l’ignoranza peggiore sta nel fatto che la maggior parte di loro hanno ancora una forte tendenza al razzismo nei confronti in primis degli asiatici e, in una forma diversa, anche nei confronti di noi backpackers. Ovviamente la mia è una generalizzazione, dato che durante il mio soggiorno a Stanthorpe ho avuto modo di conoscere anche delle bravissime persone, ma questo era in linea di massima il tipo di persone di cui ero circondata durante la mia esperienza in farm, perciò sedermi sulle scalinate dell’ex-ufficio postale di Bourke St e vedere belle donne in tailleurs e tacchi alti, e uomini eleganti nei loro “suits” passeggiare per la via mi ha letteralmente rigenerata. I miei occhi si sono riempiti non solo della bellezza della gente,ma anche di quella dei palazzi intorno a me. Come Sydney e Brisbane, anche Melbourne è caratterizzata da vertiginosi grattaceli di vetro e geometrie poliedriche che cambiano colore al mutare di quello del cielo: azzurro lucente nelle splendide giornate di sole con i grattacieli circostanti che si riflettono a vicenda, bianche nuvole che passano sulle vetrate, e grigio opaco nelle giornate uggiose. Le moderne costruzioni si alternano senza alcuna apparente logica a cattedrali in stile gotico o romanico, a cottage dell’era coloniale, a giardini lussureggianti, a stazioni ferroviarie e teatri dell’epoca vittoriana.
A rendere questa città ancora più meravigliosa ai miei occhi ci sono stati alcuni incontri che hanno reso assolutamente perfetto e indimenticabile il mio soggiorno a Melbourne. Innanzi tutto all’ostello in cui ho soggiornato per 4 notti ho conosciuto un sacco di ragazzi italiani assolutamente deliziosi. So di aver sempre cercato di evitare le amicizie con gli italiani, per la solita questione di voler parlare inglese, ma vi assicuro che ci sono dei momenti in cui si sente il bisogno di poter parlare con qualcuno a briglia sciolta senza dover ogni volta tradurre i propri pensieri. E’ stato perciò assolutamente piacevole poter cenare, chiacchierare e uscire la sera con Mauro, un ragazzo di Lecce che lavora come ricercatore in Università, Matteo di Alessandria, arrivato da due giorni in Australia e alla ricerca di un lavoro, e Pamela una bergamasca che dopo aver vissuto due anni a Londra ha deciso di prendersi un anno sabatico e di viaggiare in Asia e in Australia. A questi incontri “patriottici”, va aggiunto quello assolutamente fuori dall’ordinario con Ticiano. La mia seconda sera in ostello, non conoscendo ancora nessuno, ho deciso di uscire da sola a fare due passi per le vie del centro. Dopo aver passeggiato un po’ mangiando un gelato, mi sono seduta sulle scalinate di Federation Square e dopo pochi secondi, senza che mi fossi accorta di essere osservata da qualcuno, come una sorta di apparizione, mi compare davanti questo ragazzo che mi chiede se ho bisogno di compagnia. Non che ne avessi davvero bisogno, ma ho accettato di buon grado la sua offerta e l’ho invitato a sedersi. E’ cominciata così una strana amicizia con un ragazzo altrettanto strano. Mi sono bastati pochi scambi di parole per intuire che non avevo di fronte un ragazzo come tutti gli altri, che c’era qualcosa di diverso in lui ma non riuscivo bene a capire cosa fosse. Pur avendo raggiunto ormai un buon livello di comprensione della lingua inglese (o meglio, dell’australiano), mi capita di parlare un inglese discreto o pessimo a seconda di chi è il mio interlocutore. In linea di massima mi sento sempre a mio agio a parlare con altre persone non di madrelingua inglese, probabilmente perché le considero al mio stesso livello, mentre con i madrelingua posso parlare in modo fluente o al contrario non riuscire a spiaccicare una sola frase di senso compiuto e la variabile è sempre la persona che ho di fronte e la sua capacità di farmi sentire a mio agio. Con Ticiano, mi sono sentita subito perfettamente a mio agio e la frasi uscivano in maniera assolutamente naturale. Anche se mi rendevo conto a volte di sbagliare a coniugare i verbi o di esprimere dei concetti in modo non del tutto chiaro, non ho mai percepito derisione nei suoi occhi o noia nello starmi ad ascoltare, ma sempre una grande attenzione e interesse per quello che dicevo. Stupita per quello strano stato di perfetto “confortable” nella conversazione, mi sono doppiamente meravigliata quando ho scoperto che il ragazzo che avevo di fronte aveva solamente 27 anni. C’era ancora qualcosa di più misterioso in lui, soli 27 anni e un comportamento assolutamente atipico per un ventisettenne. Quella sera abbiamo continuato a chiacchierare passeggiando lungo le rive di South Bank e ci siamo scambiati i numeri di telefono per rivederci il giorno dopo. La sera dopo mi ha fatto ancora da guida turistica accompagnandomi a Brunswick Str, il quartiere “alternativo” di Melbourne con i suoi cafè,gli artisti di strada, i ristoranti vegetariani, i negozi vintage e a Lygon St, il cuore della “little Italy”. Più tempo trascorrevo in sua compagnia e più cresceva in me una strana percezione. E’ davvero difficile da spiegare a parole, ma era come se stessi passeggiando per le strade in compagnia di un angelo, come se stessi parlando non con un ragazzo in carne ed ossa, ma con puro spirito imprigionato in un corpo. Dava l’impressione di essere assolutamente al di sopra di tutto ciò che è materiale, non riuscivo a credere che avesse bisogno di mangiare e dormire per restare in vita, qualunque cosa che caratterizza la vita quotidiana di tutti noi, andare a fare la spesa, cucinare, andare al lavoro, fare il bucato , sembravano ai miei occhi tutte attività che non avevano nulla a che fare con lui, che non gli appartenevano, di cui lui non aveva bisogno per sopravvivere. Trascorrendo sempre più tempo in sua compagnia, ho piano piano capito le radici delle mie sensazioni. Innanzitutto è figlio d’arte. Nato in Portogallo si è trasferito in Australia all’età di 2 anni, la madre fa l’insegnante di Portoghese per l’esercito australiano e il padre è un pittore di fama internazionale che vive solamente di arte. All’età di 15 anni si è avvicinato al mondo dello yoga e della meditazione e da allora la pratica quotidianamente per se stesso oltre che insegnarla. Ogni sera medita dai 15 ai 30 minuti e dopo di che va per una camminata di 2 ore, 2 ore e mezza. Tutto ciò non è sufficiente per dare una spiegazione alle strane sensazioni che provavo quando ero in sua compagnia, ma mi hanno dato conferma della mia intuizione che c’era qualcosa di soprannaturale in lui. Purtroppo la nostra frequentazione è durata solo tre giorni poiché si erano create tutte le condizioni perfette per rimettermi il viaggio e non potevo assolutamente lasciarmele scappare. Con un pizzico di amarezza ci siamo salutati, ma dentro di me sapevo che sarebbe stato solo un arrivederci, e il mio istinto ancora una volta non mi ha tradito.


GREAT OCEAN ROAD

Una volta giunta a Melbourne il programma era quello di proseguire verso ovest, in direzione Perth, percorrendo la Great Ocean Road. Numerose agenzie organizzavano tours di uno o due giorni per percorrere questa magnifica via lungo tutta la costa meridionale, ma sapevo che il modo migliore e più economico era sicuramente trovare qualcuno con la macchina o il van e viaggiare insieme dividendo le spese del carburante. Fortuna vuole che proprio pochi giorni dopo il mio arrivo a Melbourne mi sia messa in contatto con Bruno, un ragazzo di Sondrio che aveva lavorato con me in farm per un mese e mezzo. Anche lui e la sua compagna di viaggio, Nadja, dopo aver percorso la costa est da Brisbane a Sydney, si trovavano a Melbourne ed erano diretti verso ovest. Fantastico!!!! Mi sembrava la soluzione perfetta: viaggiare in van, non dovendo così spendere nulla per l’alloggio, e con persone che già conoscevo (anche la ragazza infatti aveva lavorato con me in farm). In realtà le cose non sono andate così lisce come avrei sperato. Fin dal primo giorno di viaggio Nadja si è rivelata una persona completamente diversa da quella che avevo conosciuto in farm. Spesso di malumore, senza nessun entusiasmo nel fare le cose, nessuna iniziativa o quantomeno un atteggiamento propositivo da parte sua, non partecipava alle discussioni, non stava agli scherzi, la sua opinione era sempre e comunque l’opposto della nostra e si lamentava in continuazione per qualunque cosa:insomma, veramente irritante. Con lei personalmente non ho mai avuto nessuna sorta di discussione o litigio anche perché, essendo io l’ultima arrivata, non mi sentivo di avere nessuna voce in capitolo, ma era davvero difficile riuscire a godersi appieno le meraviglie dei paesaggi che avevamo di fronte con una tale ameba come travel mate. Al quarto giorno di viaggio Nadja e Bruno hanno discusso proprio in merito all’atteggiamento di lei e sono giunti alla conclusione che se ne sarebbe andata per la sua strada in un paio di giorni. In realtà la sua instabilità mentale si è rivelata proprio quando, dopo quella discussione, si è trasformata nella persona più socievole e solare del mondo per una giornata e dopo di che è ripiombata nuovamente nel suo malumore. A quel punto ho realizzato che lei non se ne sarebbe mai andata perché, con il suo carattere non ce l’avrebbe mai fatta a fare amicizia con qualcun altro con cui proseguire il viaggio. Perciò la soluzione era una sola: andarmene io. Era veramente insostenibile per me proseguire fino a Perth con loro due. Io non avevo bisogno di compagni di viaggio con cui dividere le spese del carburante per arrivare a Perth, avevo bisogno di amici, di gente allegra con cui viaggiare e stare bene. La mia idea di viaggio non è quella di macinare kilometri su kilometri giusto per poter dire, una volta rientrata in Italia, “Ho fatto tutto il giro dell’Australia in van!!!”, la mia idea è vivere di esperienze con i miei travel mates e soprattutto con la gente che si incontra lungo il viaggio, ma con loro sapevo che questo non sarebbe stato possibile. Perciò, anche se un po’ a malincuore, il mio viaggio con loro si è fermato ad Adelaide. Per l’ennesima mi trovavo a rivedere daccapo i miei progetti. Innanzitutto ho chiamato mia sorella per vedere quali erano i suoi progetti. Una volta appurato che in una settimana avrebbe finito con il suo lavoro in farm e avremmo finalmente potuto viaggiare insieme, il mio nuovo progetto era stare ad Adelaide una settimana e aspettare che mia sorella mi raggiungesse. Anche quest’altro progetto si è però dissolto nel giro di poche ore, ma questa volta per mia scelta. Dopo aver gironzolato qualche ora per le vie di Adelaide, ho deciso che non ci avrei passato più di un giorno in quella città. L’impatto che ho avuto è stato veramente bruttissimo. Sapevo che Adelaide non era una metropoli come Sydney o Melbourne, ma non aspettavo che fosse una città così brutta. Non c’è assolutamente nulla da fare o da vedere, il centro è una sola via con i soliti negozi che puoi trovare dovunque in Australia, la piazza principale è solamente il crocevia degli autobus e dei trams e le facce della gente per le strade erano quelle che comunemente definiamo “brutte facce”. Non mi sentivo assolutamente a mio agio in quel posto, perciò, non potendomi permettere di sprecare nemmeno un secondo del mio tempo, nel giro di un minuto ho deciso: “Ok, torno a Melbourne”.
E così eccomi qui di nuovo, a Melbourne. Dopo 10 ore di viaggio in bus sono di nuovo in una questa città che mi offre mille diverse cose da fare ogni giorno, mi trasmette “good vibes” e mi fa stare bene, la sola cosa che conta davvero. Ora l’unica cosa certa è che tra un paio di giorni mia sorella mi raggiungerà e da qui ripartiremo per viaggiare insieme. Un piano di viaggio in testa ce l’ho, ma non vi anticipo niente perché visti come sono andati a finire tutti i miei progetti, so per certo che il piano verrà rivoluzionato mille e più volte, perciò vi riserbo la curiosità e la sorpresa della mia prossima meta.

giovedì 26 marzo 2009

PER NON DIMENTICARE

Si parte per un lungo viaggio, una destinazione lontana, un paese sconosciuto, ansiosi di vedere grandi città, spiagge paradisiache, animali esotici, foreste tropicale, outback desolati, fondali corallini considerati tra le 7 meraviglie della terra e giorno dopo giorno la nostra valigia si arricchisce di nuove esperienze, conoscenze ed emozioni, ma le vere ricchezze, quelle che non hanno un prezzo e che per sempre rimarranno nel diario dei ricordi, sono quelle del cuore delle persone i cui destini si incrociano ai nostri durante il nostro peregrinare, persone che pur essendo perfette sconosciute e che probabilmente non si incontreranno mai più per il resto della nostra vita, sanno regalarci più amore di tante altre che si conoscono per decenni.

La signora Lina è stato esattamente questo per me: amore gratuito, che non pretende nulla in cambio. Tutto è cominciato quando tornando all’ostello dopo una giornata di lavoro, la moglie del manager mi si è avvicinata e, porgendomi un foglio di carta con scritto un indirizzo e un numero di telefono, mi ha detto che una signora di origini italiane era venuta quella mattina a chiedere se c’era qualche backpacker italiano e, saputo che c’era una ragazza, aveva lasciato il suo recapito dicendo che le sarebbe piaciuto conoscerla. Qualche giorno più tardi, essendo di riposo, ho deciso di chiamarla per andare da lei a bere un caffè. Arrivata a casa sua, mi ha aperto la porta una donnina di 70 anni, alta poco più di un metro e cinquanta, ben vestita e con un vivace rossetto rosso sulle labbra. Mi ha subito abbracciata, baciata e, chiamandomi “tesoro” mi ha invitata ad entrare. Da quel giorno in avanti sono diventata la sua figlia adottiva. Ho cenato spesso da lei e talvolta mi chiamava dicendomi “Oggi ho fatto la pasta per pranzo e ne ho fatta un po’ di più per te, vieni a prenderla così hai già la cena pronta”. Mi ha raccontato che ogni anno si informa se c’è qualche backpacker italiano in paese e lo aiuta se ha bisogno di qualunque cosa. L’anno scorso c’era Laura che alloggiava al caravan park e oltre a prepararle da mangiare le dava coperte e maglioni per difendersi dal freddo nelle freddi notte passate in tenda. L’anno prima c’erano due ragazzi che si erano talmente affezionati a lei da chiamarla Zia Lina. E poi ancora,anni addietro, un altro ragazzo che tutte le mattine, prima di andare al lavoro passava da lei per la colazione: uova sbattute con il marsala. Poche volte nella vita ho incontrato persone così generose, felici di donare per il piacere di donare, senza aspettarsi di essere contraccambiate in alcun modo. Ed è proprio vero che alla fine tutto torna. Questa donna che non ha mai lesinato il suo aiuto per gli altri si trova ora ad essere circondata da persone che le vogliono bene. Casa sua era più movimentata di un ostello: il telefono squillava in continuazione e ogni volta che andavo a trovarla aveva qualche visita. Ho potuto così conoscere tanti altri emigrati italiani ognuno con il proprio passato e la propria storia da raccontare. Tante volte parliamo di “italiani all’estero”, ma credo che poche volte ci siamo fermati a riflettere su cosa voglia davvero dire. Almeno io non lo avevo mai fatto prima di conoscere queste persone. Sono persone che all’età di 20 anni hanno lasciato la loro terra natale, per imbarcarsi su una nave, viaggiare per 30 giorni e arrivare in Australia, un paese conosciuto in Italia come la terra promessa dove la gente stava talmente bene da non dover lavare i piatti dopo mangiato, ma poterli buttare (scoprendo poi che era vero, sì, ma solo perché gli australiani mangiavano nei piatti di carta!). Sono persone che non avevano la minima idea di cosa fosse la lingua inglese e che hanno dovuto impararla giorno dopo giorno, vivendo sulla propria pelle il dolore della derisione da parte della popolazione locale. Sono persone che hanno lasciato genitori, fratelli e amici senza sapere se avrebbero mai avuto la possibilità di riabbracciarli di nuovo. Sono persone i cui occhi diventano lucidi quando oggi ripensano all’Italia, alla nostalgia che si porteranno fino alla tomba per un paese che gli ha dato i natali e che mai e poi mai potranno scordare.
Il giorno prima della mia partenza da Stenthorpe sono passata da lei per salutarla e, come se non bastasse tutto quello che ha fatto per me nell’ultimo mese e mezzo, mi ha fatto uno dei regali più belli che potessi ricevere. Tre fogli di carta con scritta di suo pugno la storia della sua vita. Tra poche settimane uscirà un libro proprio sulle storie degli emigrati italiani a Stanthorpe e anche a Lina è stato chiesto di dare il suo contributo raccontando la sua. Sicuramente la versione del libro sarà ben curata, rivista e corretta, ma io voglio condividere con voi questa versione, l’originale, con i suoi errori grammaticali e di sintassi e con tutta la verità che si cela dietro alle tracce di inchiostro lasciate dalla mano incerta di un angelo.

“Guaragna Giuseppe nato a Trebisacce in Provincia di Cosenza Calabria il 26-08-1928 da padre Rocco e mamma Concetta di famiglia molto numerosa 9 figli maschi e 3 femmine padre calzolaio madre casalinga. Vivevano in una casa molto piccola una cucina e una camera da letto. Il padre rocco e’ stato chiamato in guerra, con tanti sacrifici la mamma Concetta tirava avanti. In tempo di guerra ricordo che uno dei primi fratelli, Andrea, portava un sacco di grano contrabbando. I carabinieri l’hanno preso per metterlo in galera, ma la mamma Concetta si ha presentato alla questura dicendo che era colpa sua per non fare macchiare la condotta a suo figlio, così la povera donna fece due giorni di galera. Il padre Rocco tornato dalla guerra nacque un figlio dove hanno messo il nome Benito e stato battezzato da padrino per procura Benito Mussolini. Cresciuti tutti lavoravano e Giuseppe trovò lavoro in una fabbrica di mattonelle dove ci restò fino al giorno che partì per l’Australia. Partì da Genova 8-7-1955 arrivato in Australia con la nave Aurelia a Sydney prese il Treno per il nord dove arrivò Innisfail e si mise a lavorare nella canna da zucchero. Ci restò per tre anni tornato si trasferì nel NSW (New South Wales) a Tenterfield lì lavorò dove costruirono un ponte. Restava 15 mesi e andò a Mingula per coltivare tabacco dove ci restò fino al 1962. La mamma di Giuseppe trovò una ragazza per lui, Carmelina Sarubbi di San Giorgio Lucano in provincia Matera. Aveva una zia a Trebisacce vicino la famiglia Guaragna allora Carmelina andava spesso da sua zia al mare. Un giorno la madre di Giuseppe disse alla zia di Carmelina che le piaceva e sarebbe stata il tipo per il figlio. La zia chiese a Carmelina. Giuseppe incominciato a scrivere a Carmelina dove le mandò una foto ma i genitori di Carmelina non erano contenti ma lei sfidò tutti finché un giorno partì. 1-9-1961 Carmelina prese la nave Sydney a Genova partì per l’Australia. Arrivata A Sydney il 30-9-1961 la nave è arrivata un’ora di anticipo. Carmelina non vedeva nessuno andò con la foto di Giuseppe in mano cercando in mezzo alla folla. Finalmente vide uno che rassomigliava allora lei bussò alle sue spalle e le disse “Sei tu Giuseppe Guaragna?” e si abbracciarono commossi. Giuseppe portò Carmelina a casa dei suoi amici di nome Lucia e Mario Malatesta e il giorno dopo si sposarono nella chiesa dei capuccini a Sydney e restarono per una settimana felici e contenti. Giuseppe comperato una macchina nuova partirono per Mingula dove Giuseppe aveva la farm del tabacco. Dopo 12 ore di guida arrivarono a destinazione per Carmelina fu molto dura, mai visti boschi isolati in vita sua però era felice del passo che aveva fatto. Giuseppe finito la giornata di lavoro andò a sparare conigli e capre e li cucinava. Era molto duro per Carmelina non conoscere la lingua i costumi ecc. Al secondo mese di matrimonio ero in attesa di mia figlia dopo 8 mesi lasciammo Mingula ci trasferimmo a Stanthorpe dove fummo ospitati dalla famiglia Gottardi. Lì restarono finché non trovarono un appartamento. Allora trovarono una casa, in questa casa pioveva da per tutto . Lì restarono per cinque mesi. Partivano per l’Italia Giuseppe, Carmelina e la piccola Maria Concetta dove restarono per nove mesi. Tornarono si compravano una casetta, dopo 3 anni è nato il figlio Rocco, la famiglia era felice. Giuseppe trovò un lavoro portava il pane in giro in vendita e i bambini nella macchina con lui mentre Carmelina lavorava Motel. Così dopo tanti anni di sacrifici i bambini sono fatti grandi. Oggi Conny è sposata con due bei figli, Hidi e Lyndon e Rocco con tre figli Joshua, Tiarna e Cody. Una famiglia felici e contenti. Grazie a dio….”

giovedì 5 marzo 2009

TIME IS RUNNING OUT

Penso alla forma della maniglia della porta della mia camera da letto a Crodo, ma non riesco a ricordarmela. Penso ai colori delle banconote europee ma riesco a focalizzare solamente il rosa dei 5 Euro (perché sono rosa vero? Ditemi di sì vi prego) mentre i colori delle altre taglie sono in qualche cassetto della mia memoria che non riesco proprio ad aprire. Gli “amici” non mi mandano più e-mail, se non in risposta alle mie. I miei sogni sono popolati da gente che parla inglese e spesso mi ritrovo a pensare in inglese. Che dite, è arrivato il momento di tornare a casa? I segnali ci sono tutti, ma ancora non è tempo. Mi mancano ancora delle cose da fare e so per certo che devo farle ora prima di rientrare in Italia e mettere la testa a posto, perché poi sarebbe troppo tardi. So per certo che lasciare questa terra sarà uno dei momenti più difficili e che per settimane o forse mesi non farò altro che pensare all’Australia e chiedermi per quale motivo sono rientrata in Italia. Fino ad una settimana fa avevo preso la decisione di stabilirmi qui almeno per un altro anno. Poi, come sempre accade quando i progetti sono condivisi, tutto è sfumato nel giro di poche ore e ora mi ritrovo a dover fare i conti con una realtà diversa. La realtà è che dopo aver lavorato per due mesi in farm con il solo obiettivo di ottenere il secondo visto e rimanere in OZ un altro anno, mi sono ritrovata a non avere più la motivazione che mi dava la forza di alzarmi tutte le mattine alle 5 e trascorrere 8 ore a impacchettare peperoni verdi. Le soluzioni a questo punto erano due: mollare tutto o cercarmi un’altra motivazione. Chiaramente non era da me lasciarmi andare e così ho presto trovato un’altra ragione per restare: ottenere il secondo visto per poter sfruttare i mesi di Aprile e Maggio in viaggio. Finirò i miei tre mesi il 22 di Marzo e per allora avrò messo da parte i soldi sufficienti per poter vivere di rendita per un paio di mesi. Non so ancora di preciso che itinerario seguire, ma so di voler vivere senza pensieri ancora per qualche mese. Quando mi ricapiterà di poter vivere come sto vivendo ora? Nessuno che mi dice cosa devo fare e come lo devo fare. Nessuna scadenza da rispettare. Nessuna bolletta da pagare, se non l’alloggio negli ostelli. Nessuno, ma proprio nessuno, a cui dover render conto dei miei comportamenti o delle mie scelte. Nessuna occhiata di disapprovazione se indosso gli stessi vestiti per una settimana intera o se mi sdraio per terra dove mi capita. Quando mi ricapiterà l’occasione di svegliarmi la mattina e dire “Ok, oggi che si fa? Vado in spiaggia, al museo in centro o prendo il primo aereo e vado a Melbourne o a Perth o, perché no, a Darwin?” Il senso di libertà che si prova quando si è in viaggio è qualcosa di impagabile e di indescrivibile se non lo si vive in prima persona. Quando parlo di viaggio non mi riferisco alla vacanza di 15 giorni che l’italiano medio si concede una volta all’anno (non me ne voglia chi si sente tirato in causa in prima persona). La vacanza è semplicemente un trasferire la vita di tutti i giorni in un’altra location. Non è forse così? Quando si va in vacanza non si è mai veramente liberi di essere qualcosa di diverso dal solito. Ci si preoccupa del proprio aspetto e del proprio apparire in qualunque circostanza, esattamente come a casa: il bikini giusto per la spiaggia, il pareo in coordinato con l’infradito, il trucco perfetto per la cena e il tacco mozzafiato per la sera. Si parla sempre delle stesse cose: lavoro, politica, calcio, l’Italia che va a rotoli e i soldi che non bastano mai. Il viaggio è assolutamente qualcosa di diverso da tutto ciò, è dimenticarsi totalmente di ciò che si è stati, di come si è vissuto fino ad ora per lasciarsi totalmente avvolgere e coinvolgere da una nuova dimensione che magicamente e inspiegabilmente diventa la TUA dimensione, quella che ti calza a pennello e che non vorresti abbandonare mai. So benissimo che la vita da backpacker non può essere per la vita, ma quanto vorrei che così fosse!!!Prima d’ora non avevo mai pensato di quante cose superflue fossi circondata. Ora tutto ciò che possiedo sta in uno zaino ed è tutto ciò di cui ho bisogno, non mi manca nulla per vivere ed essere felice. Perché prima i soldi non bastavano mai e mi sembrava sempre di aver bisogno di comprare qualcosa assolutamente indispensabile? Non nego che il pensiero di ricadere nuovamente in questo vortice di materialismo e consumismo non mi alletta per niente. Ma so che purtroppo presto o tardi mi ricapiterà. So che verrà il momento in cui avrò di nuovo un lavoro “serio” e dovrò ogni giorno indossare qualcosa di diverso per poter essere socialmente accettata. Mi ritroverò nuovamente, come un tempo, ad aprire il mio grosso armadio e dire “Non ho niente da mettermi!!” avendo di fronte a me decine e decine di pantaloni, maglie e vestiti. Se qualcuno di voi ha un’idea di come rientrare in questo vortice senza traumi per favore me lo faccia sapere!!! Ovviamente so che non sarà tutto così terribile. Sarà bellissimo mangiare di nuovo al tavolo della cucina di casa con mamma e papà, sdraiarsi sul divano con il camino che scoppietta di fianco, rivedere i miei zii e i miei cuginetti, mangiare e bere insieme ai vecchi amici e scoprire che assolutamente nulla è cambiato. So che fra qualche mese quando tornerò a casa troverò negozi che hanno chiuso e altri che hanno aperto, vedrò facce sulle riviste di persone a me totalmente sconosciute, ascolterò tormentoni alla radio che per me saranno completamente nuovi, ci saranno nuovi modi di dire o nuove espressioni prese da Zelig o da qualche nuovo programma di cui ignorerò l’esistenza, ma di fondo so che nulla sarà cambiato. Ritroverò le stesse persone con la stessa vita di sempre e so che dopo una primo momento di stordimento, come un alieno catapultato all’improvviso sulla terra, ricomincerò a rientrarci piano piano e a scoprire che in fondo sarà proprio quella assoluta mancanza di cambiamenti che mi darà la forza di pensare a questo anno in Australia come a un meraviglioso ricordo e ad andare avanti per ricominciare da capo una nuova vita.

martedì 3 febbraio 2009

....CON UN PO' DI RITARDO....

Anno nuovo e come sempre tempo di bilanci, di riflessioni e di buoni propositi. Ma prima di tutto vorrei aggiornarvi sulla mia situazione qui a Stanthorpe a due settimane di distanza dalla mia prima, e da dimenticare, giornata di lavoro. Dopo un week end eterno trascorso all’insegna dell’ozio, finalmente il Lunedì comincio il nuovo lavoro nella nuova farm. La navetta parte dall’ostello alle 5 a.m. perciò alle 4.15 sono in piedi, faccio colazione, preparo qualcosa per il pranzo e alle 5 puntuali sono sul pulmino insieme ad un’altra decina di ragazzi. Dopo soli 15 minuti arriviamo alla fattoria e da questo momento per altri 45 minuti aspettiamo pazientemente di cominciare il lavoro. L’inizio della giornata lavorativa è infatti alle 6 di mattina, ma poiché la navetta deve portare altri ragazzi in giro per le farm, ci tocca arrivare con assurdo anticipo. Un po’ alla volta arrivano anche i proprietari della farm e altri ragazzi che alloggiano in differenti ostelli o camping. A questo punto comincia quella che ironicamente mi sento di chiamare “la selezione degli schiavi”. I proprietari, radunati attorno a un pick up con le braccia appoggiate sul cassone discutono tra di loro dando qualche occhiata verso la nostra direzione . Noi siamo tutti seduti in un angolo, in silenzio, in attesa di essere scelti. Dopo una decina di minuti uno dei capi si dirige verso di noi e indicandoci con il dito ci dice: “Tu, tu, tu, tu…sul quel pick up; tu,tu,tu,tu, e tu se quell’altro”. Non so dove l’altra metà dei ragazzi sia finita ma il mio destino, e quello di altri 5 ragazzi, è un campo di peperoni dove il nostro lavoro consiste nello strappare le erbacce attorno alle piantine. Il lavoro non è estenuante come lo è stato raccogliere cipolle a Gatton, ma vi assicuro che dopo 9 ore trascorse a strappare erbacce il solo desiderio che si può avere è una doccia e un letto. La seconda e la terza giornata sono invece alla insegna del “planting”. Il lavoro consiste nel trapiantare piccole piantine di non so quale vegetale, presumo sempre di peperoni. Al contrario di quanto si possa immaginare non è assolutamente un lavoro faticoso, noioso sì, ma non faticoso. Il trattore è infatti provvisto di un rimorchio in cui ci sono due sedili posizionati al livello del suolo perciò, mentre il trattore avanza in prima, le persone sedute devono solamente posizionare le piantine nei buchi e coprirne le radici con la terra. Altre due persone seguono il trattore a piedi assicurandosi che nessun buco venga lasciato senza piantina. A turno si sta in piedi o seduti e per questa ragione non è assolutamente fisicamente stancante.
Dopo la pausa natalizia il lavoro riprende questa volta con una nuova attività che si rivela essere veramente devastante: picking green capsicums, ossia raccogliere peperoni verdi. Non so se avete mai visto una pianta di peperoni (io no, prima di allora), ma sono molto rigogliose con un sacco di foglie, ovviamente verdi, che mimetizzano perfettamente i peperoni, anch’essi verdi!!! Un casino!!! La raccolta va fatta lavorando velocemente e allo stesso tempo avendo l’accortezza di non rompere le piantine. Le prime 4 ore passano velocemente, ma da questo momento in poi il corpo comincia a ribellarsi e non si riesce più a trovare una posizione che possa dare un po’ di sollievo: in piedi, in ginocchio, accasciati o seduti ogni posizione viene mantenuta per non più di 5 minuti prima di avvertire fitte di dolore alla schiena, alle gambe e alle articolazioni di ginocchia e caviglie. Vi assicuro che è davvero estenuante e ne è la prova il fatto che nei due giorni trascorsi a raccogliere peperoni ben 7 ragazzi hanno lasciato ostello e lavoro perché non ce la facevano a reggere un’altra giornata di lavoro. Io devo ammettere che se sono ancora qua dopo due settimane è perché alla fine della seconda giornata di raccolta, non so se per compassione o per ricompensa, uno dei capi mi chiede “Do you wanna work in the shed Tomorrow?” Se voglio??? Non potrei desiderare di meglio. Il giorno successivo, ossia il Lunedì comincio il lavoro che ancora ora sto facendo: packing capsicums. Paragonato alla raccolta, il lavoro del confezionamento è una passeggiata. Si tratta solamente di stare in piedi di fianco ad un nastro trasportatore e man mano che i peperoni passano selezionarli in base alla misura (grossi, medi e piccoli), metterli in tre differenti cartoni e scartare quelli con ammaccature, buchi o difetti di ogni sorta. La giornata è di 8 ore e mezza al termine della quale le schiena e le gambe sono indolenzite per aver mantenuto la stessa posizione, ma veramente nulla al confronto col picking!!! Al momento perciò sto ancora facendo questo lavoro e sto facendo di tutto per non perderlo: cerco di lavorare veloce e bene, non mi perdo in chiacchiere e dico solo “yes”, “no”, “thank you” e “sorry”. E’ troppo un lavoro d’oro e non voglio rischiare di dover tornare nel campo. Al momento sembrerebbe che non ci siano problemi al riguardo, anzi ieri ho dovuto prendere in posto di una ragazza koreana perché troppo lenta. Ah quasi dimenticavo, ieri ho scoperto che i proprietari della farm sono italiani!!! Ho parlato per un po’ a fine turno con una signora, di cui non so il ruolo preciso, ma che per certo fa parte della famiglia e spero vivamente di avere altre occasioni di chiacchierare con lei o con altri membri della famiglia: vorrei cercare di giocarmi la carta del patriottismo per ridurre la mia permanenza nella farm e ottenere i 3 mesi senza doverli effettivamente lavorare. Cross fingers!!!!
Le mie giornate trascorrono perciò per lo più tutte nello stesso modo: lavoro dalle 8 alle 17, doccia, un salto al supermarket , cena e nanna. Al momento non ho una larga compagnia in ostello. Su circa una quarantina di ospiti credo che 30 siano koreani, giapponesi o cinesi e gli altri 10 siamo io, 5 ragazzi tedeschi, un irlandese, un nepalese, due svedesi e una filippina. Tra questi ho legato in particolare con un ragazzo tedesco, Sven, e con la ragazza filippina, Emily, con cui divido lavoro e compagnia durante la cena. Non che non abbia contatti con i ragazzi asiatici, ma essendo molto numerosi si ritrovano sempre seduti tutti insieme allo stesso tavolo a parlare la stessa lingua e a dividere lo stesso cibo. La cittadina non offre veramente nulla, se non qualche pub, perciò nei giorni di riposo non ci sono altre alternative che mangiare, dormire, leggere un libro o scrivere il mio blog, come sto facendo ora, in questo lungo e freddo sabato di inizio Gennaio.

Le feste se ne sono andate anche quest’anno, ma ad essere sincera per me non sono nemmeno arrivate . E’ stato il mio primo Natale lontana da casa e fortunatamente credo di non averne sentito troppo la nostalgia. Sicuramente l’assoluta assenza di un clima natalizio è stato un valido aiuto: Stenthorpe non era addobbata con luci e alberi, ed avere nel guardaroba solo pantaloncini, tops e infradito mi faceva pensare a tutto fuorchè al Natale. Devo comunque ammettere che se non accusato il colpo del primo Natale fuori patria è stato perché ho potuto trascorrere la giornata in compagnia di mia sorella. La vigilia di Natale abbiamo finito di lavorare alle 11 di mattina perciò, avendo davanti due giorni di vacanza, ho comprato un biglietto per Brisbane e il pomeriggio stesso sono partita. Il giorno di Natale non abbiamo fatto nulla di speciale, se non mangiare qualcosa e guardare la tele, ma il fatto stesso di essere in qualche modo “in famiglia” non mi ha fatto pensare troppo a quello che mi stavo perdendo a casa. Indubbiamente la telefonata dei miei genitori e dei miei zii mi ha destato un desiderio di caminetto acceso, di panettone, di spumante e di ore trascorse a tavola a chiacchierare e a ridere, ma per fortuna l’essere in compagnia di mia sorella mi ha permesso di viverlo senza troppa malinconia.
Il capodanno invece è stato un vero disastro. So che molti di voi avranno pensato “Chissà la Eli su quale spiaggia australiana starà festeggiando la mezzanotte!?!?!” e invece mi spiace deludervi ma ho celebrato l’anno nuovo a letto nella mia camera del mio ostello a Stanthorpe in compagnia dell’influenza….shit vero?? Purtroppo avendo solo il 1° dell’anno di riposo era impensabile andare a Brisbane e, avendo raffreddore e febbre, era altrettanto da stupidi andare in giro a bere. Così, al caldo nel mio lettuccio guardando “Love actually” sul mio lap top, ho aspettato di salutare l’anno nuovo.